Charles Baudelaire sosteneva che gli scritti lunghi sono la risorsa degli imbecilli che non
sanno farne di brevi. L’assioma vale anche per i saggi. Così, un saggio tanto più si rivela
pregevole quanto più sappia essere come un’ape ovvero sia capace di pungere il lettore, di
nutrirlo con il miele della cultura e di volare via leggero. Ecco, Franco Amatori è riuscito a
compiere questo miracolo. Con “L’impresa italiana”, Amatori distilla e condensa, nei nove
agili capitoli del saggio, una storia d’Italia, dall’Unità a oggi, dall’angolo visuale dell’impresa,
senza indulgere alla celebrazione schumpeteriana del “demiurgo imprenditore”, nemmeno
là dove traccia una galleria dei grandi capitani dell’industria italiana. Anzi, i principali pregi
del saggio sono l’aver saputo sempre collegare storicamente la dimensione
microeconomica (le imprese e la loro carica innovativa) a quella macroeconomica (lo Stato
e le sue politiche industriali contraddittorie) e aver approcciato la materia per grandi fasi: la
crescita dell’Età Giolittiana, il ristagno fascista, l’accelerazione del Dopoguerra, il
rallentamento degli ultimi anni. In sintesi estrema, per Amatori, l’Italia delle imprese resta
però una realtà “frizzante” (nell’accezione di Durkheim). Una vitalità spiegabile, in parte,
con la tesi gramsciana della stratificazione millenaria di competenze artigiane sui territori
propria dell’Italia. Non solo: emerge, in controluce, una originale spiegazione del rapporto
Stato-imprese che pone l’accento sulla specificità di un soggetto Stato italiano costruito in
soli dodici anni (tra il 1849 e il 1861): di qui, il “peccato originale” di un’organizzazione
fatalmente accentrata, anelastica al federalismo di Cattaneo o all’autonomismo di
Minghetti. Un accentramento sotto il quale, però, pulsava (e pulsa) una realtà sociale
multiforme. Fatale che la mediazione fra Stato e imprese fosse lasciata alla politica,
cristallizzando, nel tempo, quel problema che ancora ne caratterizza il controverso
rapporto.