Il romanzo di Paolo Barbaro è – come la migliore letteratura di materia industriale – una vasta allegoria dell’esistenza dell’uomo nel mondo. L’io narrante è un giovane ingegnere uscito dal Politecnico provvisto di tutte le velleitarie speranze - e i rischi di inettitudine - della giovinezza: il progetto che trova realizzazione, il calcolo che diventa opera, l’idea che si fa esperienza. L’apprendistato professionale in uno studio nel quale incombe la figura solitaria e semidivina di Maineri diventa però un tragitto esistenziale e insieme un ingranaggio che, giorno dopo giorno, preclude ogni varco verso una dimensione di vita autentica. In una Venezia ben poco oleografica, nella sala disegno popolata di tecnici chini sui fogli, la spinta dell’io narrante all’introspezione fa attrito doloroso con la necessità di un lavoro ossessivo e un’attenzione spasmodica, poiché “Il discorso vero è il progetto, o addirittura l’opera costruita, ponte diga macchina”, e “nel breve spazio d’un foglio, ogni deviazione porta subito a imprecisioni paurose”. Mentre si perdono le occasioni e si rimandano le scelte, diventa febbrile lo sforzo di eliminare - mediante la minuziosità dei numeri e dei segni - l’imperfezione della vita, il non senso in agguato, la casualità che distrugge e sovverte. Ed è la ricerca disperata di una solidità da cui partire, di un ordine, una persistenza, un controllo su immani forze primordiali, l’acqua, l’aria, il tempo. La purezza del calcolo, però, offre dati esatti ma non certezze reali, e il giovane ingegnere scopre al tempo stesso – proprio quando sembra possibile schivare l’errore, edificare davvero, arginare, collegare - l’inemendabile manchevolezza degli uomini, i limiti degli strumenti e delle tecniche, la fragilità dei maestri. Il linguaggio del romanzo è essenziale e meticoloso, la trama disadorna e concentrata, eppure la conclusione arriva implacabile e struggente. E’ la fine degli anni Cinquanta, i calcolatori si evolvono e l’invaso del Vajont – qui mai nominato - è pronto a distruggere per sempre l’innocenza dell’homo faber: “Ma contava provare: senza garanzie e senza la pretesa di una storia”.
Milva Maria Cappellini
Paolo Barbaro ha esordito con Giornale dei lavori nel 1966. Fin dai primi libri usciti per Einaudi e Mondadori tra il 1966 e il 1980 si è imposto all'attenzione della critica italiana e internazionale. Tra le opere più recenti, tradotte in diverse lingue: Diario a due (Marsilio 1987), La casa con le luci (Bollati Boringhieri 1995), L'anno del mare felice (il Mulino 1995), L'impresa senza fine (Marsilio 1998), Con gli occhi bianchi e neri (Marsilio 1999), Il paese ritrovato (Marsilio 2001). Ha vinto i Premi Buzzati, Comisso, Flaiano, Pisa, Teramo, per tre volte il Premio Selezione Campiello e per due volte è stato finalista del Premio del Pen Club italiano.